Aspettando il sole: Hip-Hop e industria della moda

Anni 2000, biker, bralette, crochet, cut-out, frange, mini micro, paracadute, bandana, arm cuff, platform, pailettes, tutto rigorosamente di un colore solo, uniformemente distribuito, o di una fantasia che immediatamente riconduce il capo d’abbigliamento al brand di appartenenza e la consapevolezza che come nella vita, anche nella moda, ‘tutto torna’.

 

Nata nel 1958, la Milano Fashion Week, considerata tra le ‘big four’ insieme a New York, Londra e Parigi, che ospitano due volte l’anno la ‘settimana della moda’, conferma tutt’oggi il ‘Made in Italy’ rinomato nel mondo.

Chi la dipinge è la ‘Camera Nazionale della Moda Italiana’, un’organizzazione non a scopo di lucro che disciplina, coordina e promuove lo sviluppo della moda italiana ed è responsabile dell’organizzazione degli eventi legati alla moda di Milano.

Per la partecipazione alle sfilate di presentazione delle nuove collezioni delle grandi marche come Versace, Fendi (di cui quest’anno ricorderemo sempre il reciproco ‘dialogo creativo’), Gucci, Dolce e Gabbana, Armani, Missoni etc… C’è necessariamente bisogno di un grande invito e per riceverlo bisogna necessariamente a nostra volta essere dei grandi: grandi influencers, grandi tiktokers (sì, numerosissimi tra gli ospiti delle sfilate), grandi attori, grandi cantanti, grandi modelli, grandi fotografi, grandi individui insomma, grandi produttori di qualcosa di grande che ha attirato un grande pubblico. Un’ottima strategia di marketing, dal momento che i vari eventi hanno lo scopo di promozione del brand.

Seguendoli più da vicino, comunque, è lampante come la cultura Hip-Hop influenzi in modo così prepotente l’industria della moda. Oggi, in sostanza, se non è street wear, non è ‘alla moda'. E anche se del mondo street non ne sai nulla, c’è il 90% di probabilità che tu ti vesta con dei capi immediatamente riconducibili alla street culture. Quanti ormai hanno la felpa a righe con la firma Karl Kani, ma solo perché ce l’ha l’amico e quell’amico ce l’ha perché l’ha vista in vetrina dove ci sono le Jordan in restock e le Jordan ce le hanno tutti?

A pensarci bene, c’è stato un rovescio della medaglia col tempo, perchè a partire dalla fine degli anni 90, quando i primi rappers lanciavano i loro brand, come il Wu-Tang Clan con ‘Wu Wear’, ‘Sean John’ di P. Diddy, ‘Vokal’ nato dalla collaborazione tra Yomi Martin, Nick Loftis e Nelly, ‘Roca Wear’ di Jay-Z, ‘Shady Limited’ di Eminem, ‘G Unit Clothing’ di 50 Cent, la popolazione medio-alta (per capirci) non si sarebbe mai vestita con le T-shirt oversize, le giacche extralarge, le bandane, i cappellini e gli occhiali da sole scuri che coprono metà viso, mi sembra di stare descrivendo la nuova collezione di Versace, appunto.

Ma Donatella può, perché la citano i Migos e Drake: ‘Versaci,Versaci,Medusa’ e perché comunque ha avuto degli incontri ravvicinati non indifferenti, come Tupac a casa sua per l’apertura di una qualche sfilata, per citarne una…

 

Kanye West nel documentario sull’Hip-Hop ‘Fresh Dressed’ afferma che avere stile è molto più importante che avere soldi, bisogna essere ‘fresh’, no matter what, perché lo scopo di come mi vesto è trasmettere ciò che sono e la mia identità sociale, certo, questo però non se ce ne si appropria.

Oppure, come nel caso di ‘Versaci,Versaci,Versaci’ citato prima o di ‘Christian Dior Dior’ di Pop Smoke, è sinonimo di inclusione e affermazione? O è solo vanto, di chi può permetterselo?

E’ lo stesso dilemma della street dance e dei trend su Tik-Tok. E’ un bene che l’Hip-Hop o degli steps Dancehall (tanti, tantissimi), arrivino a praticamente tutta la popolazione mondiale in modo così semplice, senza dare un minimo di credito a chi quel passo prima di tutto l’ha vissuto e poi gli ha dato una forma ben precisa, un nome e solo successivamente l’ha anche insegnato? E chi lo vede e lo riproduce e lo commercializza, è giusto che non dia nessun credito all’iniziatore del tutto, che nella maggior parte dei casi ancora fatica a lavorare con la sua arte e ad elevarsi a livello sociale?

Non si tratta solo di musica, solo di danza, solo di una t-shirt, di un paio di sneakers, di una capigliatura o solo di uno slang, ma di un’intera cultura e come tale bisogna rispettarla, informarsi e non farla propria, perché non sarebbe possibile, piuttosto invece bisognerebbe farsene portatori, promotori e ricercatori, imparando da chi tutto questo lo vive o lo ha vissuto. E’ soddisfacente ballare, fare il tik-tok, riguardarlo e piacersi, imparare lo step e riproporlo in una coreografia o nel club, ma è quando si è mossi da una spinta sociale che possiamo dire di starlo anche facendo bene.


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Autore
Futura Zungri
IG: @futur.ae


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